venerdì 12 novembre 2010

HERE ARE THE YOUNG MEN, THE WEIGHT ON THEIR SHOULDERS

Quando ho iniziato ad ascoltare i Joy Division la loro storia era appena finita, con il suicidio di Ian Curtis nel Maggio del 1980. Due soli LP e una manciata di splendidi singoli li avevano già resi una delle band di riferimento e di culto per quel decennio, e per quelli a venire.
Una musica certamente oscura, spesso nervosa e tormentata come la personalità del leader, ma anche caratterizzata, soprattutto nell’ ultima fase, da aperture melodiche e strumentali che sembrano (quasi paradossalmente) aprire degli spiragli evolutivi, che solo parzialmente troveranno realizzazione nella musica dei New Order, formati dai 3 residui componenti del gruppo.
Se dovessi isolare un elemento tipico del suono dei Joy Division, oltre alla particolarissima e profonda voce di Ian Curtis, sceglierei le linee di basso di Peter Hook, continue, ossessive e al tempo stesso così melodiche e penetranti da diventare, anziché mero elemento ritmico, struttura portante dei brani, occupando lo spazio tradizionalmente appannaggio della chitarra.
Questo si nota bene nel singolo Transmission e in molti brani del primo album Unknown Pleasures, tra cui la prima versione di She’s Lost Control.
Unknown Pleasures nel suo austero confezionamento bianco/nero, è un disco strumentalmente tutto giocato su batteria-basso-chitarra che oppone, ai tratti aggressivi di Disorder, Shadowplay, Insight e della quasi punk Interzone, i momenti rallentati e psichedelici di New Dawn Fades e Day of the Lords.
Il successivo Closer rappresenta una svolta nel suono dei Joy Division: la nervosa energia del primo disco sembra stemperarsi in malinconica rassegnazione; al tempo stesso le composizioni si arricchiscono di suggestive trame di synth creando un amalgama sonoro avvolgente, a tratti etereo. È un viaggio affascinante e spossante, che tocca i suoi vertici nell’ accelerazione di Isolation, nelle note di pianoforte di The Eternal, nei lenti riff sintetici di Decades.
Subito dopo esce il singolo di Love Will Tear Us Apart, l’ unica canzone dei Joy Division ad aver ottenuto una certa notorietà, grazie ad una melodia insolitamente diretta; ma il lascito più bello di Ian Curtis sta, secondo me, in un brano che condivide il vinile con la versione riveduta di She’s Lost Control: Atmosphere. La batteria potentissima ti inchioda al suolo. I synth ti portano in cielo. Ma è inutile descriverla. Uno dei capolavori della storia del rock, semplicemente.

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lunedì 11 ottobre 2010

FIRENZE RIBOLLIVA


La pagina qui accanto, presa da Rockerilla del Marzo 1984, sanciva un fatto ben chiaro a tanti seguaci, toscani e non: Firenze era la capitale della new wave italiana. C’ erano davvero tanti gruppi in giro, con stili anche molto diversi tra loro, e c’era soprattutto la mitica triade Litfiba-Diaframma-Neon, assurta a notorietà nazionale.
Dei Litfiba si sa quasi tutto, dagli esordi alla recente reunion; già agli esordi la loro musica aveva toni spesso enfatici, e mi piace ricordare la storiella secondo la quale un giovane ed entusiasta Piero Pelù, ad uno dei primi concerti, si gettò tra il pubblico confidando nella entusiastica presa dei fan che, invece, si scansarono… rovinosa caduta…. verità o leggenda ?
I Diaframma degli inizi (dal 45 giri Pioggia al primo album Siberia) avevano un suono molto più secco ed oscuro, molto vicino a Joy Division e primi New Order, per poi evolvere nella creatura rock-cantautorale del solo Federico Fiumani.
Personalmente ho amato molto di più i Neon, tornati sulle scene recentemente in ottima forma. Nella loro prima fase erano un duo solo elettronico, come testimonia la prima versione di Information of Death (45 giri del 1980) e come posso testimoniare io avendoli visti suonare di supporto ad Echo & The Bunnymen in una inconsueta serata in zona Piazza della Signoria. Poi l’organico si è allargato ed è venuto fuori quel suono inconfondibile in cui sotto la voce al tempo stesso oscura e melodica di Marcello Michelotti si intrecciano le basi elettroniche e le chitarre; il tutto sintetizzato perfettamente da My Blues Is You, inno del dark-waver fiorentino.
Un’ altro gruppo dell’ area fiorentina che voglio citare sono i Minox, creatori di un affascinate mix di elettronica e melodie classicheggianti, nello stile dei Tuxedomoon con i quali effettivamente collaborarono.

Non saprei spiegare perché a Firenze ci fosse tanto fermento, ma certo la “scena” aveva dei bei punti di riferimento:
- il Tenax, locale dove è passato il meglio di quello che capitava a tiro, New Order, Tuxedomoon e Bauhaus per fare i nomi più importanti. E dove si svolsero le prime edizioni del Rock Contest organizzato da Controradio
- Controradio, appunto. Emittente che ancora esiste e resiste, in quegli anni passava questa musica che davvero da altre parti non si poteva sentire, non c’era. Oltre ad informarci e a crearci una coscienza critica e politica, come continua da sempre a fare, per noi che abbiamo la manopola saldata sui 93.600 MHz…
- Contempo Records, in via de’ Neri a Firenze, negozio di dischi (ma anche etichetta discografica  che pubblicò tra l'altro dischi di Pankow, Diaframma, Litfiba, A.T.R.O.X. e perfino Clock DVA).. Lì si andava rovistare tra i vinili (eh sì, non c’ erano i CD) mentre dalle casse usciva, non so, Bela Lugosi is Dead dei Bauhuaus.

Difficile descrivere l’ emozione che riempiva quel breve spazio—tempo che passava da quando la puntina toccava il vinile a quando partiva la prima nota, spesso sullo stereo del mio compagno di liceo che tanto ha contribuito a farmi scoprire quei gruppi “strani”.
Per sapere poi quali emozionanti novità fossero in arrivo, aspettavo ogni mese l’ uscita di Rockerilla, rivista che leggevo da cima a fondo (ad eccezione delle pagine con i ceffi dell’ heavy metal).
Ecco tutto questo era parte davvero di un mondo alternativo non nel senso snob o elitario del termine ma nel senso di una netta separazione tra chi seguiva questa musica e chi semplicemente ne ignorava l’ esistenza. E questo ci dava un identità ben definita, una diversità di cui essere orgogliosi – e non sto parlando evidentemente della moda di vestirsi di nero, ma di sentirsi rappresentati da suoni originali e non banalmente commerciali come quelli che uscivano dalle altre radio, passavano in tv, o riempivano le discoteche.

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giovedì 30 settembre 2010

RADIO CLASH

Sembra incredibile ma i Clash suonarono a Firenze, la mia città, ed io ero lì, (con la spilletta qui raffigurata) il 23 Maggio 1981; non è che mi ricordi molto, ero molto lontano dal palco, in Curva ferrovia, intorno fumavano di tutto. Comunque una buona documentazione di quell’ evento si trova qui
I Clash sono stati un punto di riferimento, una bandiera, sia per i contenuti che per la musica. Dal punti di vista “politico”, a parte qualche ingenuità dovuta ad un idealismo spinto all’ eccesso, il loro essere “rivoluzionari” ha dato voce alle speranze di cambiamento di molti. Dal punto di vista musicale, sono stati protagonisti di un’ evoluzione straordinaria soprattutto nella libertà con cui hanno evoluto il loro suono, contaminando rapidamente le radici punk con un sacco di altra roba di varia provenienza; e in fondo anche questa capacità di superare le barriere è stato un atteggiamento politico.
Il primo album è del 1977 ed è caratterizzato da un suono ruvido e diretto, di cui White Riot è l’ esempio migliore, ma già il singolo successivo (White Man) in Hammersmith Palais fa presagire l’ aprirsi di orizzonti più ampi.
Il secondo album “Give ‘em Enough Rope” è considerato da molti un mezzo passo falso, ma l’ 1-2 iniziale (Safe European Home / Tommy Gun) è micidiale ! In particolare Safe European Home è potenza pura, con batteria e chitarra che duellano esplosive, le voci di Joe Strummer e Mick Jones che si intrecciano, e quella trovata finale…
Su “London Calling” sono un po’ eretico se dico che non lo ritengo il loro capolavoro. Ho l’ impressione che il gruppo, pronto al salto di qualità e ad un allagamento del proprio pubblico, viaggi un po’ “col freno tirato”. Comunque ci sono grandi classici come Guns of Brixton, Rudie Can’t Fail, Lost in the Supermarket, Revolution Rock.

“Sandinista !” (1980) è creatività alo stato puro, i Clash al loro massimo prima dell’ inizio del declino. Intanto, uscì come triplo LP, 36 brani, e già questa era un’ eresia. Dentro, di tutto: le reminescenze punk di Somebody Got Murdered e Police on my Back; il pop obliquo e minaccioso di Charlie don’t Surf, The Call Up, Rebel Waltz; i cori dei bambini in Hitsville UK; il funky-rap di Magnificent Seven e Lighting Strikes; perfino il folk irlandese di Lose This Skin; ma soprattutto, quintali di reggae e dub. In questo disco infatti la  passione per la musica giamaicana di Strummer e soci, che già aveva fruttato una magnifica versione di Armagideon Time, si manifesta in modo definitivo in un risultato ibrido non dissimile da quello raggiunto da altri gruppi inglesi in quegli anni (i Police di Reggatta de Blanc, gli UB40 di Signing Off, i Ruts DC) ma unico e geniale. Così, in “Sandinista !”, 2 dei brani migliori, One More Time e Junco Partner, hanno la loro controparte dub, e i ritmi si dilatano tra echi ed effetti anche in The Crooked Beat e The Equaliser.
Naturalmente non sfugge che il rimescolamento musicale, in particolare quello tra la derivazione punk “bianca” e le radici funk e reggae “nere” sono anche un simbolo di rottura di convenzionali confini sociali ed etnici. Dunque ancora i Clash riescono a trovare l’ espressione musicale perfettamente rappresentativa delle loro posizioni politiche in senso lato.

Quello che segue è, purtroppo, ben poca cosa. La magia finisce, i nostri hanno il tempo di imbroccare un paio di quasi-hit, Rock in the Casbah e Should I Stay Should I Go, brani piuttosto insulsi che per i più distratti sono le sole canzoni identificative di questa band.
Però… non è finita proprio lì. Paul Simonon e Mick Jones sono ricomparsi in qualche progetto discreto, ma è Joe Strummer che ci ha regalato qualche altra sorpresa prima di andarsene, troppo, troppo presto.
clash by Marco Petilli on Grooveshark